giovedì 30 gennaio 2014
mercoledì 29 gennaio 2014
mercoledì 22 gennaio 2014
martedì 21 gennaio 2014
Sicurezza a Milano
NOTA STAMPA
MILANO, LA NUOVA EMERGENZA SICUREZZA ACCENDE LO SCONTRO TRA OPPOSIZIONE E GIUNTA PISAPIA
Il movimento "Destra per Milano" si lancia apertamente contro l'Amministrazione Comunale, accusandola di eccessivo buonismo nei confronti degli immigrati
Milano 17/01/2014 – Nel capoluogo lombardo l'anno è cominciato decisamente male con lo sgradito ritorno dell'emergenza sicurezza. Nei primi giorni del 2014 diverse zone della città sono state funestate da aggressioni e furti in appartamento. Secondo quanto riportato dal giornalista di Telecolor Vladimiro Poggi, una minoranza dei milanesi ritiene che la causa di questo boom di microcriminalità sarebbe da attribuire alla presenza di immigrati senza fissa dimora e privi di occupazione.
Il movimento "Destra per Milano", per voce del presidente Roberto Jonghi Lavarini, sembra essere sulla stessa linea di pensiero incolpando direttamente l'Amministrazione Comunale guidata dal Sindaco Giuliano Pisapia, reo di abbandonare interi quartieri al degrado, abusivismo e campi nomadi. Il Primo Cittadino di Milano, in carica dal 2011, è accusato di eccessivo buonismo nei confronti degli immigrati disoccupati che, nelle parole di Roberto Jonghi Lavarini, «vengono lasciati bivaccare in città». Come ricorda Vladimiro Poggi, Giuliano Pisapia è famoso per aver negato ai militari la possibilità di attuare operazioni di deterrenza sulle strade del territorio comunale, ma anche per aver "disarmato" i vigili urbani. La "Destra per Milano" vorrebbe che il presidio territoriale venisse affidato ad ex poliziotti e carabinieri che, fungendo da sentinelle, potrebbero avvisare in tempo reale le forze dell'ordine, in caso notassero un possibile reato in corso; già in passato lo sforzo sinergico aveva dato ottimi risultati riducendo sensibilmente i reati predatori. «Il problema della sicurezza non è solo da attribuire all'immigrazione - afferma il presidente di "Destra per Milano" Roberto Jonghi Lavarini ai microfoni di Telecolor – ma soprattutto alla mancanza di sicurezza da parte dell'Amministrazione Pisapia. La legge è uguale per tutti e deve essere rispettata anche dai nostri ospiti che, peraltro, spesso non sono graditi».
Per visionare il servizio:
Mattia Castellini
Ufficio Stampa PZ
Ufficio Stampa PZ
lunedì 20 gennaio 2014
venerdì 17 gennaio 2014
martedì 14 gennaio 2014
lunedì 13 gennaio 2014
Esiste un capitalismo buono?
Berlusconi, capitalista attivo
Il capitalismo italiano sterile, pavido e passivo non aiuterà mai la ripresa come è avvenuto negli Usa
Renzi e il suo job act ha costretto tutti a confrontarsi con i problemi del lavoro, occorre cambiare le regole e invertire la tendenza
di Simonetta Bartolini
Da tempo si parla del problema della disoccupazione, e quindi del lavoro che non c’è, ma sembra che solo da dopo la diffusione della bozza del job act di Renzi, si sia cominciato a parlare veramente di lavoro e dei suoi problemi, della necessità della riforma delle regole.
Ieri sera Servizio Pubblico ci ha offerto una puntata esemplare, malgrado Santoro che era visibilmente sconcertato dell’armonia di analisi e di intenti dei suoi ospiti (Brunetta, Rampini e Landini), tanto da provare, senza successo, a innescare la rissa che di solito assicura buoni ascolti.
La puntata di ieri di Servizio pubblico ha sicuramente fatto riflettere molti degli spettatori: Con chiarezza abbiamo capito che in Italia la ripresa non è possibile, che il capitalismo italiano è malato e irredimibile: mantiene il 46% della ricchezza nelle mani del 10% degli individui, ma si tratta di ricchezza improduttiva che continua ad arricchire chi la possiede senza portare nessun beneficio alla collettività.
Non si tratta si badi bene di distribuire ricchezza in maniera caritatevole, si tratta di far circolare il denaro, aumentare gli investimenti economici (e non quelli finanziari cui si dedica il capitalista nostrano), produttivi, e certamente rischiosi in parte.
Il capitalismo americano, ci spiegava ieri Rampini, ha risollevato il trend della crisi imprimendo una crescita di circa il 4% grazie a coloro che, come in ogni capitalismo virtuoso, hanno esercitato l’ “investimento avventuroso”, ovvero non si sono limitati (come ha fatto per esempio la Fiat con Chrysler, affare nel quale la famiglia Agnelli non ha rischiato né messo fuori un solo euro dei propri) a investire sul sicuro senza esporre neppure una parte del capitale, ma hanno investito magari su 10 progetti dei quali 9 sono stati un bagno di sangue, ma uno si è dimostrato vincente. In questo modo certamente hanno rischiato, ma hanno anche fatto circolare il denaro, creato lavoro, dato chance e avviato la ripresa.
Il nostro capitalismo è immobile, concentrato nelle mani di pochi che rigorosamente evitano ogni rischio per magari passare il patrimonio acquisito a figli viziati alla ricchezza che vogliono solo mantenere, e semmai aumentare ma senza alcun rischio, il capitale. Le seconde e/o terze generazioni di capitalisti non hanno il coraggio dei padri, né probabilmente l’intelligenza, il cosiddetto bernoccolo degli affari che ha permesso ai genitori di prendersi rischi, ma anche di vincere e di far crescere il paese.
Naturalmente è legittimo che ognuno della propria ricchezza faccia quello che vuole, guai a mettere in discussione la libertà individuale, guai a pensare che chi ha debba dividere per legge con chi non ha.
Quello che però risulta insopportabile nel capitalismo italiano è che il mantenimento della ricchezza avvenga attraverso il ricorso agli ammortizzatori sociali che gravano sulla comunità. Avviene così che per mantenere la ricchezza di un industriale in un momento di crisi, esclusivamente lo Stato, cioè noi, si debba far carico degli effetti della crisi stessa.
Risultato il capitalista manterrà inalterato il proprio capitale e gli effetti della crisi si riverseranno sui dipendenti, e per garantire la loro legittima, ripeto legittima, esigenza di sopravvivenza, intervengono i cosiddetti ammortizzatori sociali, ovvero il soccorso dello Stato che permette al capitalista di non erodere il proprio capitale e riversa sulla comunità il deficit.
Questo è intollerabile, non solo moralmente, ma anche economicamente. Quando un paese è in crisi non possono pagare solo i più deboli, né può essere addossato tutto alla comunità.
Non è un caso che chi rischia veramente, nel nostro sistema, sono i piccoli imprenditori, quelli che vivono con i loro dipendenti la crisi, quelli che mettono in gioco il proprio patrimonio personale che coincide con quello della loro impresa, quelli che, guarda caso, poi si suicidano per la disperazione di non poter andare avanti, quelli, per i quali non ci sono ammortizzatori sociali, quelli che hanno tentato veramente di far girare l’economia del paese.
Chiediamoci perché la crisi si è abbattuta drammaticamente sui piccoli imprenditori e non sul grande capitale? Perché i suicidi si contano esclusivamente fra i piccoli capitani d’industria e non fra i grandi industriali che fanno ampio ricorso agli ammortizzatori sociali pagati da noi?
Semplice perché quel 10% di detentori del 46% della ricchezza italiana hanno personalizzato detta ricchezza, nel senso che gli utili accumulati (legittimamente) negli anni non sono andati a favore dell’impresa se non in piccola parte, e non esiste legge che obblighi chicchessia a rimettere con il proprio patrimonio personale (che ovviamente non è liquidità ma è finanziarizzato e quindi imprendibile, spesso anche dal fisco) i conti in rosso dell’azienda.
Così se l’azienda non va, magari anche per scelte sbagliate, poco lungimiranti, tese solo al mantenimento dello status quo si licenziano i dipendenti o li si mette in cassa integrazione, a carico della comunità, o si cerca di prepensionarli così è di nuovo la comunità a pagare.
Questo non può funzionare. Quando c’è uno stato di crisi non è pensabile che a pagare siano solo i soliti, i più deboli.
Ovviamente affinché questo stato di cose cambi non è pensabile la soluzione comunista dell’espropriazione a favore della comunità. È evidente che devono cambiare le regole del lavoro, ed ecco che qui entra in gioco il job act di Renzi che per quanto sia ancora una scatola vuota con bei titoli ma nessuna sostanza, è effettivamente per ora l’unica proposta sul tema.
Per cambiare le regole occorre coraggio, occorrono determinazione e idee chiare, occorre anche attingere, non nel senso delle mani in tasca, ma nel senso del coinvolgimento attivo, ai grandi capitali, alla ricchezza che l’Italia possiede e in maniera non indifferente.
Ieri sera Brunetta, e nessuno lo ha contraddetto, dimostrando quindi di essere sostanzialmente d’accordo ha detto quel che anche Renzi ha proposto, sforiamo quel maldetto 3% che ci impone l’Europa.
Ricominciamo a far circolare il denaro pubblico con investimenti nel lavoro in maniera da costringere anche il grande capitale a fare la stessa cosa.
Vi siete chiesti perché Berlusconi, con tutti i suoi difetti, i suoi modi non sempre apprezzabili quanto a bon ton istituzionale, i suoi guai giudiziari e le accuse di essere entrato in politica per tutelare i propri interessi sia più popolare degli Agnelli (solo per fare un esempio, ma potremmo parlare dei Benetton, o dei Colaninno, o dei Tronchetti Provera e via dicendo) che alla prova del voto popolare non prenderebbero neppure in decimo del consenso che raccoglie il cavaliere?
Semplice, Berlusconi, a torto o a ragione, rappresenta il capitalista che non licenzia, che non mette in cassa integrazione, che non delocalizza, che considera l’impresa qualcosa da non congelare nel benessere acquisito in attesa che le cose migliorino. Berlusconi, e i figli rappresentano, a torto o a ragione (ma sospettiamo a ragione), il capitalismo che crea ricchezza e non pesa sulla comunità. Si sarà fatto leggi ad hoc? Può darsi. Avrà lucrato sulla posizione politica? Può darsi, ma ha pesato direttamente sulla comunità pretendendo aiuti per mantenere posti di lavoro?
Nell’immaginario collettivo, no; e tanto basta per fare di lui un capitalista amato. E forse non a torto
"Rompere la Gabbia": Sovranità Nazionale e rinegoziazione del debito contro la crisi.
... IL RIPRISTINO DELLA SOVRANITA' MONETARIA NON E' UNA FANTASIA ESTREMISTA, MA E' LA VIA PERCORRIBILE E NECESSARIA PER BLOCCARE LA CRISI E INVERTIRE LA TENDENZA
- Presentazione del libro -
"Che il dibattito sulla crisi e su come uscirne giri a vuoto, è sensazione diffusa: “la ripresa è dietro l’angolo”, ci dicono. Ma intanto ad ogni tentativo concreto di rilanciare l’occupazione, diminuire le tasse, rendere più tollerabile la vita quotidiana alla stragrande maggioranza degli italiani, fa da contraltare un altro ritornello: “mancano le risorse”. Se si tira la coperta da un lato, se ne lascia scoperto e irrisolto un altro, un altro problema. A meno, come da ‘rivelazioni’ degli ultimissimi giorni, di svendere di nuovo quel che resta del patrimonio pubblico dopo le privatizzazioni dell’industria di Stato del 1992.
I due dogmi da abbattere: Signoraggio privato e Debito
Questo accade perché si parte da due dogmi: l’emissione monetaria in mano alle Banche private e il Debito gravato da interessi senza fine, gli interessi sugli interessi che rendono nel tempo lo stesso debito insolvibile. Una situazione senza sbocchi. La fine dell’indipendenza degli Stati, e dunque la fine della democrazia, come denunciava 80 anni fa per il suo paese il primo ministro canadese (e liberale) William Mackenzie King e come dimostra il rapporto istauratosi tra l’Unione Europea e gli Stati membri entrati nell’eurozona, sotto l’incontrollato controllo della privata Banca Centrale Europea.
Molti economisti, non troppi in verità, si battono contro questo stato di cose. Tantissimi cittadini, gruppi, associazioni si muovono nello stesso senso, con prese di posizione che vengono presentate spesso come estremiste, ma in realtà sono quasi sempre solo “radicali” e cioè, nella situazione data, “realiste”, perché capaci di andare alla radice del problema che impedisce la ripresa dell’economia italiana.
Questo libro vuole essere un contributo di analisi a questa esigenza di chiarificazione e di cambiamento. In particolare sul terreno dei fatti storici.
Questo libro vuole essere un contributo di analisi a questa esigenza di chiarificazione e di cambiamento. In particolare sul terreno dei fatti storici.
Da Giulio Cesare a George Soros, il signoraggio è
sempre esistito ed è sempre stato fonte di reddito
sempre esistito ed è sempre stato fonte di reddito
E’ la storia infatti che ci insegna alcune verità utili a comprendere e a trasformare il presente sul terreno cruciale del Debito e del Signoraggio: l’interesse sul denaro, il denaro che al contrario di quello investito nel ciclo produttivo crea “dal nulla” altro denaro (Maurice Allais), né è un fenomeno moderno o contemporaneo né tanto meno un fatto ‘naturale’. Lo si ritrova infatti anche nell’età antica e medievale, dalla Bibbia alla Roma antica, dalle banconote cartacee del Basso medioevo a quelle del XVII secolo, ed ha spesso suscitato conflitti e segnato svolte storiche cruciali: le vicende di Giulio Cesare e Nerone, un assassinio e una leggenda nera, lasciano trasparire dietro le quinte il nodo degli interessi sui debiti, con la figura di Marco Bruto ricordato da autorevoli studiosi come ‘usuraio’, e con i famigerati Pubblicani che utilizzavano il loro ruolo di esattori per rapinare sistematicamente beni altrui.
Del resto, sul debito e le regole per la sua quantificazione, ci si è sempre scontrati tra diversi ‘partiti’, un tempo in chiave solo religiosa (le critiche cristiane e musulmane all’usura-“riba”) e in epoca recente da un punto di vista anche laico, ideologico e umanitario. Così suona assurdo il dogma del Debito italiano (il debito è quello, e nessuno può discuterlo), a fronte della sua rinegoziazione tentata appena una trentina di anni fa dai Paesi in via di Sviluppo, in conflitto col sistema bancario e finanziario occidentale e aiutati da personalità internazionali quali Papa Giovanni Paolo II, Fidel Castro o Thomas Sankarà. Un percorso difficile, ma lungo il quale si può ottenere una inversione di tendenza se si ha il coraggio e l’intelligenza di avviarlo.
Del resto, sul debito e le regole per la sua quantificazione, ci si è sempre scontrati tra diversi ‘partiti’, un tempo in chiave solo religiosa (le critiche cristiane e musulmane all’usura-“riba”) e in epoca recente da un punto di vista anche laico, ideologico e umanitario. Così suona assurdo il dogma del Debito italiano (il debito è quello, e nessuno può discuterlo), a fronte della sua rinegoziazione tentata appena una trentina di anni fa dai Paesi in via di Sviluppo, in conflitto col sistema bancario e finanziario occidentale e aiutati da personalità internazionali quali Papa Giovanni Paolo II, Fidel Castro o Thomas Sankarà. Un percorso difficile, ma lungo il quale si può ottenere una inversione di tendenza se si ha il coraggio e l’intelligenza di avviarlo.
Quanto al potere di emissione di banconote sono stupefacenti le fantasie ‘negazioniste’ del signoraggio e del connesso reddito, che hanno segnato per anni il dibattito in Italia: da una parte minoranze coraggiose, gli auritiani e altri gruppi radicali, e dall’altra presunti esperti che sui grandi mass media ne contestano a vuoto la ‘banale’, perché ovvia, teoria.
In effetti il signoraggio e il suo reddito, eccome se esistono: esistono per un mero principio di logicità attinente al microprocesso di produzione della singola banconota (costo pochi centesimi, valore quello stampigliato sul rettangolo di carta: la banconota è la merce che dà il più alto profitto); esistono per le ammissioni di studiosi o personalità protagoniste del fenomeno, da Maurice Allais a Paul Krugman, da George Soros a Beniamino Andreatta. Ed esistono per le tante prove storiche sul conflitto che il controllo dell’emissione monetaria ha suscitato tra diversi gruppi di potere dentro uno stesso Stato: tra Imperatori e aristocrazia senatoriale nell’antica Roma, tra il Consiglio dei X e il Senato nella Repubblica di Venezia, tra i banchieri privati e l’indebitato Guglielmo III d’Orange negli anni precedenti la fondazione della Banca d’Inghilterra (1694).
Se il signoraggio-potere di emissione monetaria non desse reddito, perché tanti conflitti attorno ad esso? E perché oggi la oggi privata Banca d’Italia non lo restituisce allo Stato italiano, anche fosse nella quota-parte di euro assegnatale dalla BCE?
Fino al 1992 e sin dall’epoca fascista, l’Italia ha goduto di sovranità monetaria.
Qui veniamo ad una seconda verità, un fatto storico recente e tuttavia spesso obliato persino da molti sostenitori della sovranità popolare sull’emissione di banconote. Lo Stato italiano ha goduto infatti di una sostanziale sovranità monetaria dal 1936 – il regio decreto che ha trasformato la Banca d’Italia in ente di diritto pubblico – al 1992, quando l’onda tangentopolista ha favorito, col governo Amato, la privatizzazione dell’industria di Stato: tra cui l’IRI con le sue Banche di interesse Nazionale, e dunque la stessa Banca d’Italia di cui le BIN erano azioniste.
La continuità tra Fascismo e Repubblica potrebbe dar fastidio e dunque essere messa in discussione da una parte e dall’altra. Ma è comunque un dato di fatto inconfutabile che la crescita abnorme del Debito nell’ultimo ventennio (o trentennio, se si fa riferimento al ‘divorzio’ tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981) sia da mettere in relazione anche e soprattutto con la perdita della sovranità monetaria, sancita definitivamente dal decreto 333 dell’11 luglio 1992.
Si puo’ cambiare la situazione? L’obbiettivo è certo difficile ma non impossibile, per le cose fin qui dette e per altri elementi che di nuovo la narrazione storica e l’analisi della realtà odierna ci consegnano: tra le questioni affrontate nel libro, tre sono importanti, perché dovrebbero far comprendere che l’ “utopia è possibile”.
La prima riguarda le radici storiche della debolezza del pensiero di sinistra su finanza e banche: un capitolo è dedicato a Marx, e un altro ai sindacati. Ma Marx non è solo quello del Terzo Libro de Il Capitale e dell’assurda marginalizzazione del capitale finanziario dall’analisi sociale e storica del suo tempo: è anche quello, di opposto paradigma, de Le lotte di classe in Francia del 1848 dove “borghesia” e “proletariato” si ritrovano nei fatti sulla stessa barricata, contro l’ “aristocrazia finanziaria” dominante nell’epoca di Luigi Filippo. E nella lontana memoria della sinistra non c’è solo Hilferding, ma anche Hobson e altre tendenze, al cui interno si possono mettere persino gli appelli del PCI degli anni Sessanta a una convergenza dei ceti produttori contro la ‘rendita parassitaria’ dell’epoca: che non era quella finanziaria, ma che comunque richiamava quel fenomeno speculativo che oggi sta schiacciando l’economia reale, l’economia delle produzione di beni materiali.
La storia non si fa con i “se”, ma cosa accadrebbe se si creasse una trasversalità
sociale lavoratori-impresa, e una trasversalità politica in Parlamento?
Un fronte comune dei Produttori di ricchezza reale
contro l’anarchia del capitale bancario e finanziario
Cosa accadrebbe se nella dialettica tradizionale imprenditori-lavoratori dipendenti, si inserisse la questione del terzo protagonista della crisi attuale, largamente egemone sugli altri due, e cioè la grande finanza transnazionale e le Banche? Cosa accadrebbe se gli imprenditori mettessero temporaneamente in sordina la polemica pur legittima sull’art. 41 della Costituzione, e i sindacati entrassero in una logica di convergenza sull’obbiettivo comune di contrastare il sistema bancario privatistico che sta distruggendo tutto il mondo della produzione e sta creando milioni di disoccupati in Italia e in Europa? Cosa accadrebbe se il centrodestra, sin qui poco attento al progetto scellerato di una nuova svendita del patrimonio pubblico da parte del governo Letta, recuperasse veramente ‘lo spirito del ’94’, nella parte relativa all’idea di un capitalismo diverso da quello che sposta capitali da “una cassaforte all’altra”, e dunque non produce ricchezza, ma accumula denaro lungo i binari della speculazione pura?
Ecco dunque le altre due questioni. Da una parte l’Unione Europea e l’eurozona: questa Europa non va, deve essere trasformata alla radice, perché è espressione non del mondo del lavoro, né della libera impresa produttiva. E’ l’Europa della grande finanza privata, è il Nuovo Leviatano che lede in continuazione la sovranità degli Stati membri e dunque dei Popoli che essi, nel bene e nel male, rappresentano.
La trasversalità sociale e politica della questione del ‘signoraggio’
e la necessaria rideclinazione del liberismo
e la necessaria rideclinazione del liberismo
Dall’altra, e questa volta in positivo, dalla storia emerge chiaramente l’oggettiva trasversalità delle questioni signoraggio e sovranità monetaria. La prescrizione netta del premio Nobel dell’economia Maurice Allais, che deve essere lo Stato e non i banchieri privati, a detenere il potere di emissione monetaria, ha trovato e trova riscontri e consensi ovunque, non solo nel pensiero cattolico, ma anche in quello liberale e laico. Questa mera constatazione è molto importante. Occorre fare uno sforzo teorico per rideclinare la questione del liberismo, anche da parte di chi non è liberista. Un conto è il liberismo di impresa produttiva, un conto è il liberismo finanziario. Questo – l’anarchia della finanza transnazionale - rappresenta la morte sicura di quello, e lo si è visto nel dicembre 2011, quando la BCE ha regalato 419 miliardi alle banche private al tasso dell’1%, mentre le piccole e medie imprese italiane stavano chiudendo a migliaia i battenti.
Il liberismo dell’impresa produttiva porta con sé la fisiologica contraddizione tra imprenditori e lavoro dipendente. Il liberismo finanziario uccide entrambi. Per questo la battaglia per il ripristino della sovranità monetaria e per la rinegoziazione del Debito è assolutamente trasversale, non solo dal punto di vista sociale ma anche politico: negli ultimi due secoli, negli Stati Uniti e in Europa, molti statisti e personalità squisitamente liberali si sono schierati a favore del controllo statale dell’emissione monetaria, anche per salvare la libera impresa capitalista. Tra questi il terzo presidente degli Stati Uniti Jefferson e il primo ministro canadese degli anni Trenta William MacKenzie.
Il liberismo dell’impresa produttiva porta con sé la fisiologica contraddizione tra imprenditori e lavoro dipendente. Il liberismo finanziario uccide entrambi. Per questo la battaglia per il ripristino della sovranità monetaria e per la rinegoziazione del Debito è assolutamente trasversale, non solo dal punto di vista sociale ma anche politico: negli ultimi due secoli, negli Stati Uniti e in Europa, molti statisti e personalità squisitamente liberali si sono schierati a favore del controllo statale dell’emissione monetaria, anche per salvare la libera impresa capitalista. Tra questi il terzo presidente degli Stati Uniti Jefferson e il primo ministro canadese degli anni Trenta William MacKenzie.
La trasversalità è dunque possibile. Lo dimostrano anche i diversi progetti di legge avanzati da un ampio spettro di partiti politici italiani a partire dal 1995: AN, Rifondazione comunista, Italia dei Valori, Destra di Storace, PDL, partito quest’ultimo che riuscì nel 2005 a far approvare una legge - mai però applicata - a favore del ripristino della maggioranza del capitale pubblico tra gli azionisti della B d’I.
La via d’uscita dunque c’è, l’importante è avviarne il percorso, partendo da una analisi a tutto campo e trasferendola sul piano del concreto operare. Larghe intese, vere, non sotto l’egemonia del Nuovo Leviatano e dei suoi rappresentanti in Italia ma di una Politica - anch’essa oggi in crisi perché quasi tutta egemonizzata dalle Banche e dalle grandi catene mediatiche legate alla finanza transnazionale - capace di interpretare e concretizzare le esigenze profonde del popolo italiano.
Prof. Claudio Moffa (novembre 2013)
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Informazioni, piantine, fotografie e visite:
Dott. Roberto Jonghi Lavarini
Cell 346.7893810 – robertojonghi@gmail.com
S.E.I.M. UNO S.R.L. - Società Edificatrice Immobiliare Milanese dal 1927
Corso Sempione 34, 20154 Milano - Tel. 02.3313260 – Fax 02.31801315
N.B. Tutti gli immobili non presenti in questa lista sono stati già affittati.
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